Romanzo di Elif Shafak

Sullo sfondo di una Istanbul che ci appare molto diversa da come la possiamo immaginare, si incontrano le vite di due giovani donne. Asya è nata fuori dal matrimonio, figlia di una madre musulmana, considerata non praticante e libertina, che ha deciso di metterla al mondo nonostante il suo primo desiderio fosse stato quello di abortire. Armanoush, invece, è nata dall’unione di una madre americana e di un padre armeno, separati fin da quando Amy, così preferisce chiamarla la madre, era piccolissima; cresciuta da un patrigno turco musulmano, anche se si considera cittadino americano in quanto non vede la sua famiglia da moltissimi anni, decide di compiere un viaggio alla ricerca della propria identità. Questo evento costituisce l’inizio di una fitta trama di misteri e colpi di scena, che porterà entrambe le protagoniste ad avere molte risposte sul proprio passato e sulle proprie origini, delineando una volta e per sempre il filo rosso che le unisce fin dall’eternità.

Un romanzo al femminile, in cui, almeno per quanto riguarda la genealogia di Asya, la componente maschile sembra vittima di una strana maledizione: i nonni, mariti e fratelli, eccetto uno, sono scomparsi in giovane età, non arrivando a compiere il quarantunesimo anno. Pertanto, il compito di guidare e sostenere la famiglia, pur nella varietà dei credo e delle tradizioni, sono donne le quali cercano di costruire e dare senso alla propria esistenza restituendo dignità alla loro condizione: quella di non essere nate maschi, quella di non avere con sé compagni né mariti, quella di essere libere di credere o non credere, praticare le tradizioni o non praticarle.

Una visione femminile che viene spesso sottovalutata quando si parla di altre religioni e di altri Paesi e ci conforta nel tenere lo sguardo fisso su ciò che è essenziale: l’essere umano ha in sé tutte le capacità per attraversare il dolore della perdita e della separazione. Non solo quelle che riguardano l’elaborazione di un lutto, nel caso di questo romanzo di più lutti che si ripetono come una sorta di maledizione, ma anche il dolore della perdita della propria identità, delle proprie radici, della propria cultura. Ma, per poterlo fare, ha bisogno di altri esseri umani, che accolgano il dolore, che riconoscano la brutale ingiustizia che lo ha causato, che rinnovino un impegno sociale nell’affermare che più nessun sopruso deve essere commesso nel nome della fede, del genere, della provenienza, della storia personale.

E’ un romanzo, questo, che con profonda delicatezza parla del male assoluto e di come, nonostante tutto, si possa ricostruire un’esistenza non basata sulla vergogna, sul rinnegamento delle proprie radici, sulla dissimulazione di ciò che si crede giusto e vero.

Le donne descritte hanno ciascuna attraversato un dolore capace di trascendere lo spazio, il tempo e le generazioni: il male ritorna, la morte ritorna, la discriminazione ritorna, l’eterna incertezza di poter essere a pieno titolo padrone della propria vita ritorna.

Eppure, la certezza di non essere sole, di potersi ritrovare attorno ad una preghiera detta a mezza voce, di fronte ad un dolce tradizionale, in un giaciglio improvvisato, dà loro la forza di proseguire in una vita che non sembra fatta per le donne intraprendenti e autonome.

C’entra la religione? In parte. Indubbiamente il credo religioso, per chi lo vive come un elemento costitutivo dell’identità, gioca una parte importante nella costruzione della propria vita e nella gestione delle relazioni sociali. Ma non è un problema religioso, di per sé. È un problema umano. È un problema che riguarda gli uomini e le donne e come loro cerchino di vivere le proprie scelte, decidendo deliberatamente di prevaricare o meno sugli altri, in funzione di quelle stesse scelte. Asya poteva non nascere. Ma è nata. È nata perché sua madre ha autonomamente scelto di spezzare la catena di sopruso, di morte, di disperazione, di sopraffazione che aveva caratterizzato la sua esistenza fino alla nascita di sua figlia. Con questa scelta ha dato alla sua vita e a quella di Asya una nuova opportunità. Poteva non farlo, era nel suo diritto. Ma l’ha fatto. Non voglio dire che ci sono scelte giuste e scelte sbagliate; questa dicotomia così netta ha già portato per troppo tempo separazione e giudizio tra gli esseri umani. Voglio dire che ci sono scelte che possono cambiare per sempre il destino del singolo essere umano e, nella loro portata, anche il destino dell’umanità. Il filo che unisce Armanoush e Asya è il filo che lega l’interno genere umano. Tutto ha un inizio e tutto ha una fine. Eppure, in questa vita che qualcuno vorrebbe individualista allo strenuo, sperimentiamo che a possedere un valore determinante è l’incontro, l’opportunità che viene dall’accogliere l’altro fino a confondervisi, fino a perdere i confini della propria identità, quei confini che a volte tendiamo a difendere come un baluardo, a dispetto di tutto e di tutti, ma che, invero, si fondano proprio sulla natura sociale dell’essere umano.

Monica Betti, insegnante di Scuola dell’infanzia

Categories: