A volte pensiamo alla morte come alla morte fisica. Ma oggi sento il bisogno di parlare anche di un’altra morte, di altre morti, che ci riguardano da vicino, ma che non sempre sappiamo vedere. Sono mesi che rifletto su questo tempo in cui siamo vittime e autori di giudizi che vanno oltre il lecito, il richiesto, il sostenibile. Il diritto di avere un’opinione, di esprimerla, viene continuamente messo in discussione dal depositario di verità di turno che si arroga il compito di decretare che cosa a questo mondo sia utile, inutile, giusto, sbagliato, opportuno, inopportuno. Le discussioni, i forum, i social sono inondati di parole affilate come coltelli in cui si redarguiscono le persone per come coccolano i conigli, per come pettinano i figli prima di portarli a scuola, per il fatto che apprezzino o non apprezzino Sanremo, per non parlare poi di tutto ciò che attiene la gestione della pandemia ed i comportamenti e le scelte individuali in merito. In base a questi commenti si decide quali possono essere definite brave persone e quali no, quali sono intelligenti e quali no, chi ha al cuore il bene del Paese e chi no, chi è pecora e chi è lupo, chi è asservito e chi invece è padrone della propria vita. Le sfumature di pensiero sono tutte annullate. O bianco o nero. O pro o contro. O giusto o sbagliato. E nella scia di quelle sfumature cancellate a colpi di spugna si perde un’umanità intera. In quel baratro paralizzante che separa uomini e donne che vivono nello stesso pianeta, nella stessa città, nella stessa strada, si vanno accasciando i cadaveri di chi muore a se stesso. Perché ci crediamo vivi e invece moriamo. Moriamo ogni giorno in cui saliamo in cattedra e trafiggiamo l’essere umano davanti a noi con la lama del giudizio. E ci sentiamo leggeri, perché non l’abbiamo nemmeno visto in faccia, perché lo schermo del computer o del telefono nasconde l’amarezza che si disegna sul volto di una persona ferita. Moriamo ogni volta che crediamo di avere ragione e che quella ragione prevalga su tutte le motivazioni del mondo, solo perché non le condividiamo. Moriamo ogni volta che ci ripariamo dietro il ventaglio di una presunta conoscenza e cultura, perché dalla storia non abbiamo saputo cogliere che il mondo è sempre stato pieno di grandi uomini e donne che di saggezza e sapienza ne avevano da vendere, anche quando la pensavano diversamente. Moriamo ogni volta che gettiamo il sasso e nascondiamo la mano, in fondo che ci importa, sono solo parole. Moriamo ogni volta che crediamo di esserci conquistati la libertà solo perché possiamo dire in ogni luogo e in qualsiasi modo quello che pensiamo. Moriamo ogni volta che ci definiamo fieramente sinceri e proviamo più ebrezza nel dire tutto d’un fiato quello che la nostra bocca può contenere, di quanta compassione possa provare il nostro cuore al solo immaginare come l’altro si possa sentire. Moriamo ogni volta che redarguiamo chiunque per non aver difeso i propri diritti, in quanto questo lede i diritti di un’ intera categoria e non ci rendiamo conto che abbiamo infranto il diritto più grande: quello di appartenere a se stessi prima che a qualunque categoria. Moriamo ogni volta che ci sentiamo migliori degli altri solo perché siamo cristiani, atei, con prole, senza prole, disoccupati, lavoratori, indigeni, stranieri, veloci, lenti, sani, malati, rumorosi, silenziosi, pazienti, zelanti. Moriamo e la cosa peggiore è che questa morte non ci fa paura.