Esiste un grande inganno intorno alla morte e riguarda i mass media: hanno realizzato e messo in scena la morte come spettacolo. Non lo spettacolo tragico dell’epoca medioevale dove i cittadini assistevano nella pubblica piazza alle impiccagioni, alle decapitazioni e anche allo squartamento dei colpevoli. Il potere del sovrano metteva in scena lo spettacolo per terrorizzare, per rendere esplicito il suo potere sulla vita e la morte di ogni suddito.
«Tra la fine del secolo Diciottesimo e l’inizio del Diciannovesimo, la lugubre festa punitiva si va spegnendo. In questa trasformazione si sono combinati due processi. Non hanno seguito la medesima cronologia, né hanno avuto le medesime ragioni d’essere. Da un lato la scomparsa dello spettacolo della punizione: il cerimoniale della pena tende ad entrare nell’ombra, per non essere altro che un nuovo atto procedurale o amministrativo. [.. dall’altro] Il corpo, secondo questo tipo di penalità, è irretito in un sistema di costrizioni e di privazioni, di obblighi e di divieti. La sofferenza fisica, il dolore del corpo, non sono più elementi costitutivi della pena. Il castigo è passato da un’arte di sensazioni insopportabili a una economia di diritti sospesi. Se è ancora necessario, per la giustizia, manipolare e colpire il corpo dei giustiziandi, lo farà da lontano, con decenza, secondo regole austere, e mirando ad un obiettivo ben più «elevato». Per effetto di questo nuovo ritegno, tutto un esercito di tecnici ha dato il cambio al boia, anatomista immediato della sofferenza: sorveglianti, medici, cappellani, psichiatri, psicologi, educatori. [..] Non più quei supplizi in cui il condannato è trascinato su un graticcio (per evitare che la testa si spacchi sul selciato), il suo ventre aperto, e gli intestini strappati fuori in fretta, perché abbia il tempo di vedere, con i suoi occhi, che vengono gettati sul fuoco, e in cui alla fine viene decapitato e il suo corpo diviso in quarti.» (Michel Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino, 1976, p.12-13)
Ora la morte torna a farsi spettacolo ma non come supplizio che ammonisce non commettere reati, ma piuttosto come momento quotidiano. Alleggerito dal dramma arriva divenire gioco digitale in cui i bambini non solo vedono la rappresentazione animata di decine di morti ma la procurano loro stessi usando una varietà di armi, dalle scimitarre ai mitragliatori.
«Il paradosso è pertanto che il meccanismo del nascondimento avvenga in una società in cui siamo circondati dalla morte, o meglio da una spettacolarizzazione della morte, che è l’altra faccia della rimozione: la sua banalizzazione. È stato calcolato – per quel che possono valere questi calcoli, diversi a seconda del paese e del momento, ma comunque indicativi – che un giovane di 18 anni ha assistito, in media, a 40.000 “ammazzamenti” televisivi e cinematografici (se ci aggiungiamo i videogames e gli accessi ad internet i dati salgono esponenzialmente). E quasi sempre si tratta di morti con una causa precisa: disgrazie, omicidi, quasi mai comunque morti naturali» (Stefano Allevi, L’uomo e la morte in Occidente: verso un nuovo paradigma interpretativo, in Corrado Viafora, Francesca Marin a cura di, Morire altrove, Franco Anfeli, Milano, 2014)
Quale fine raggiunge questo mettere in mostra in mille modi nei media la morte? Probabilmente tende a desensibilizzare la persona dalla paura della morte rendendo la morte un gioco spettacolare o uno spettacolo giocoso. Una strategia di banalizzazione che Bauman affianca a quella della destrutturazione – non si muore e basta, ma si muore sempre per qualcosa quindi la morte è destrutturata in centinaia di diverse cause di morte – con l’obiettivo che non si parla più della morte ma solamente di cosa l’ha causata, come se fosse un semplice accidente del destino e non un destino verso cui ognuno è votato.