Nel suo libro La Scomparsa dei Colori, Luigi Manconi ci accompagna in un viaggio che, partendo dalla diagnosi della sua malattia visiva, lo porta progressivamente verso la cecità totale. Il racconto si sviluppa attraverso tanti capitoli, ricchi di esperienze diverse: dalle riflessioni più quotidiane e pratiche, a quelle più profonde e intime che riguardano la sua trasformazione, il cammino verso l’accettazione della perdita della vista e l’evoluzione della sua identità. Le esperienze, a prima vista, potrebbero sembrare sconnesse, ma man mano che il lettore si addentra nel testo, emerge un filo conduttore che unisce tutto: la ricerca di un senso di sé, che non si annulla con la cecità, ma che si reinventa attraverso di essa.
Manconi fa una dichiarazione forte e chiara sin dalle prime pagine: vuole essere chiamato “cieco” e basta, senza eufemismi o metafore. La cecità è per lui una parte integrante della sua identità, una condizione con cui si confronta quotidianamente e che solo lui può comprendere fino in fondo. Non desidera escludere nessuno, nemmeno la sua famiglia, i suoi amici o i suoi assistenti, ma sottolinea che questo viaggio è essenzialmente personale. È un’esperienza che condivide con chi si trova nella sua stessa condizione, ma che, in definitiva, è unica e profondamente sua.
Un tema ricorrente nel libro è l’idea che la cecità non debba essere associata alla visione del “nero”, come spesso si pensa, ma piuttosto a un’esperienza che sfida il concetto di oscurità. Manconi scrive: “La cecità non è nera. È lattiginosa, a tratti caliginosa. E, talvolta, rivela sprazzi perfino luminescenti. È come se il mondo, pur spento e precipitato nelle tenebre, volesse a tutti i costi mostrare una qualche strenua varietà.” In queste righe, l’autore ci offre un’immagine sfumata della cecità, che non è mai un buio assoluto, ma un insieme di percezioni fluide e variabili. È un invito a guardare oltre il semplice concetto di “nero”, a esplorare una realtà più complessa e sfaccettata.
Malgrado la sofferenza legata alla progressiva perdita della vista, Manconi resiste e si impegna a mantenere una connessione con la sua vita quotidiana. La sua resilienza emerge nelle piccole cose: un oggetto come la bambola Polly, appartenuta a sua figlia, diventa uno strumento attraverso cui monitorare la sua condizione. Lo specchio, invece, rappresenta il momento definitivo in cui si rende conto della cecità totale, un passaggio doloroso, ma anche definitivo, che sancisce la fine di ogni possibilità di ritorno indietro. Nonostante questa consapevolezza, Manconi continua a dedicarsi alle relazioni sociali, alle amicizie e agli hobby, mantenendo una certa autonomia grazie a una rete di supporto che non percepisce mai come una forma di dipendenza e accettando con gratitudine l’aiuto degli altri.
Ciò che colpisce nel suo racconto è l’equilibrio che riesce a trovare tra la sofferenza e il rifiuto di essere definito dalla sua cecità. Non si lascia sopraffare dalla rabbia, né si riduce alla figura stereotipata del “cieco” mendicante. Piuttosto, afferma con fermezza: “Non sono una persona arrabbiata. Questa emozione occupa uno spazio sostanzialmente modesto e si esprime nei confronti delle circostanze e delle crisi che derivano dalla mia cecità, più che nei confronti della cecità stessa. Questa […] è un tratto costitutivo della mia persona e un suo connotato definitivo: l’ho acquisito, l’ho dato per scontato, soprattutto l’ho fatto mio. Insomma, mi sento cieco a pieno titolo.” Manconi non solo accetta la sua condizione, ma la fa sua, facendola diventare parte integrante della sua identità senza negarla o nasconderla.
L’autore, tuttavia, non è arrabbiato: “Non sono una persona arrabbiata […]. Questa emozione […] occupa uno spazio sostanzialmente modesto e si esprime nei confronti delle circostanze e delle crisi che derivano dalla mia cecità, più che nei confronti della cecità stessa. Questa […] è un tratto costitutivo della mia persona e un suo connotato definitivo: l’ho acquisito, l’ho dato per scontato, soprattutto l’ho fatto mio. Insomma, mi sento cieco a pieno titolo.”
Manconi, con chiarezza riesce a trasmetterci il suo vissuto di cecità: una parte di sé che, pur trasformando la realtà, gli permette di riscoprire nuove modalità di esistenza, forme di relazione e una prospettiva rinnovata sulla vita.
Ilaria Bignotti Faravelli, psicologa
Manconi L., La Scomparsa dei Colori, ed Garzanti, Milano, 2024