Tre anni fa un gruppo di ricercatori, coordinati dall’università di Amsterdam, ha pensato di effettuare un lavoro il cui obiettivo fosse quello di raccogliere il numerose di morti registrati ufficialmente in Italia, Malta, Spagna, Gibilterra e Grecia partire dal 1990.
Si parla dei casi in cui il corpo della vittima è stato recuperato in mare o è stato trovato in una spiaggia. La consapevolezza critica sul lavoro ha dimostrato come la cifra esatta non sarà possibile conoscerla, perché il numero dei corpi recuperati è considerevolmente inferiore a quello degli annegati.
Esistono molte ipotesi ritenute attendibili, e accreditate dalle organizzazioni umanitarie, che si basano soprattutto sui casi segnalati dagli organi d’informazione. La cifra stimata varia tra i 20 e 30mila annegati dalla fine degli anni Ottanta a oggi.
Il risultato ha portato all’individuazione di 3188 casi di morti “certificate”. (I dati completi sono consultabili su www.borderdeaths.org).
Oltre al riferimento numerico, l’obiettivo della ricerca è stato quello di capire quanti dei corpi ritrovati hanno avuto un nome e sono stati identificati e per i quali è stato possibile completare il procedimento di riconoscimento da parte dei familiari e il conseguente rito della sepoltura.
Questo processo porta ad una sorta di conclusione e atto di congedo e saluto rispetto al caro deceduto, questo procedimento – tuttavia – molto spesso non si conclude, perché i familiari si trovano nella situazione di non avere una tomba su cui piangere e la conseguente difficoltà/impossibilità di avviare l’elaborazione del lutto.
Cosa avviene in realtà la procedura a seguito di un corpo ritrovato?
- Segnalazione del ritrovamento alla forze dell’ordine
- Le forze dell’ordine informano la procura della Repubblica
- Apertura di un fascicolo da parte della procura e attivazione di accertamenti
- L’attività giudiziaria emette il nulla osta al seppellimento e lo comunica all’ufficio di stato civile del comune competente
- Il comune redige l’atto di morte e provvede all’inumazione
Rispetto a questo iter, la prima scoperta che Giorgia Mirto (che con Amelie Tapella si è occupata della raccolta dei dati in Italia) ha fatto è stata che nella maggior parte dei casi di ritrovamento di corpi di migranti annegati questa procedura non viene seguita in alcun modo: la maggior parte delle morti, infatti, non viene registrata.
Una circostanza che emerge con evidenza dal fatto che nei cimiteri le tombe dei migranti (identificate con numeri, nomi di fantasia etc) sono più dei certificati di morte presenti negli uffici dei comuni. Un’omissione grave. Il regolamento dello stato civile, mentre permette che un corpo venga inumato nel territorio di un comune diverso da quello dove è avvenuto il ritrovamento, stabilisce in modo tassativo l’obbligo di redigere l’atto di morte.
Il risultato è che i 3188 casi di morti nel Mediterraneo e “certificati” non sono soltanto una piccola parte delle vittime dei naufragi, ma non sono nemmeno tutte le vittime ritrovate. Paradossalmente verrebbe da dire che sono “casi fortunati”, almeno dal punto di vista dei familiari. I quali, in teoria, hanno qualche speranza di arrivare a ritrovare il corpo del figlio, del marito, del fratello.
Questi elementi di fatica, difficoltà, omissione fanno riflettere molto se si pensa al difficile compito di elaborazione del lutto, lutto che in questi casi non esiste, non viene riconosciuto né certificato. Lutto impossibile? Questi passaggi estremamente delicati e che appartengono alle vicende umane possono venire alterati da iter burocratici ed istituzionali incompiuti che non danno la possibilità ai familiari di iniziare il doloro compito di elaborazione del lutto.