Era una soleggiata mattina nel sito di Via Appia Antica 39, gli archeologi avevano esposto i reperti dell’ultima campagna di scavo, come ogni volta che era prevista l’apertura al pubblico, per permettere a tutti di osservarli e comprendere come si svolgono gli scavi. Gli oggetti sonnecchiavano tranquilli al tepore del sole, sotto gli sguardi delle persone, così diverse nei costumi da quelle con cui ricordavano di avere vissuto, ma cui ormai avevano fatto l’abitudine. Quella mattina però, per tre dei reperti, qualcosa cambiò. Un profumo nell’aria, una risata femminile, dei boccoli dorati… “Guardate questa fanciulla che ci sta osservando…mi ricorda tanto la nostra amata Lucrezia…” uno spillone per capelli dalla testa finemente lavorata, probabilmente un’hasta caelibaris, si scosse dal suo torpore e prese voce. “Mi manca moltissimo. Ricordo ancora quell’attesissimo giorno di primavera in cui vennero celebrate le sue nozze, tutti i preparativi ed i parenti che arrivarono per assistere alla cerimonia. La madre la aiutò ad infilarsi la lunga tunica nuziale di lino bianco, poi con la mia punta le divise i capelli in sei ciocche e ne fece sei trecce, che arrotolò formando un cilindro, nel quale mi immerse. Infine adagiò sopra di me il flammeum, un velo del colore delle fiamme ed uscì dalla stanza. Era così bello stare tra i suoi capelli e lei sembrava così tranquilla, ma poi…”
“Ricordo anche io il momento in cui l’ho aiutata!” lo interruppe un balsamario di vetro colorato con eleganti intarsi dorati, posto al suo fianco. “Con l’olio che contenevo donai alla sua pelle un aspetto morbido e lucente e un fantastico profumo che mai dimenticherò. Lucrezia, una volta sola, aprì un piccolo borsello e ne estrasse delle bacche, sospirò e se le portò alla bocca. Poi mi prese, mi infilò nella sua tunica e si diresse verso il suo momento. All’improvviso, mentre raggiungeva il suo futuro sposo, sotto lo sguardo di tutti i presenti, iniziò a tremare e cadde. Io venni sbalzato via dalla caduta e riuscii solo a vedere i suoi occhi spalancati, lo sguardo assente e le pupille dilatate.
In un attimo l’atmosfera cambiò, si fece molto tesa, tutti accorsero agitati e poi iniziarono a piangere e ad urlare il suo nome.” La sua voce flebile e rotta dall’emozione si spense. “Dopo però, non ricordo più nulla…”
A quel punto intervenne una panciuta olla in ceramica, che si trovava dietro allo spillone e al balsamario: “Purtroppo quell’evento non fu accidentale. Io non ero presente perché mi trovavo nella cucina, al mio solito posto al focolare, ma nei giorni seguenti sentii i racconti, e non solo, di chi passò di lì. Venni a sapere che alcune bacche di Belladonna erano state trovate nella camera della fanciulla e che lei le aveva usate per togliersi la vita. I genitori avevano combinato il suo matrimonio per motivi economici e di prestigio, ma lei non ne voleva sapere di sposarsi con uno sconosciuto. Ecco il motivo del suo disperato gesto. In quei giorni tutti continuarono a ripetere il nome di Lucrezia, e le donne della famiglia, accompagnate anche da estranee, piangevano e cantavano lamenti funebri. Io, che sempre avevo mantenuto la mia posizione e che sempre avevo aiutato Lucrezia e la sua famiglia nella preparazione dei pasti, venni svuotata, pulita, spostata… Il giorno del funerale capii perché. Dalla mia posizione tra le braccia della madre di Lucrezia, vidi la ragazza distesa sopra al feretrum: il suo corpo era stato lavato e ricoperto di unguenti, profumava come sempre e la sua pelle sembrava risplendere. Venne portata dai parenti maschi fino al luogo in cui sarebbe stata sepolta. Al loro seguito il resto della famiglia, alcuni suonatori e quelle estranee che continuavano a piangere e cantare. Tutti portavano abiti neri. Una volta arrivati, qualcuno gettò su Lucrezia un pugno di terra, per purificarla, dissero. In seguito, il suo corpo venne bruciato. Le sue ceneri e le sue ossa vennero riposte al mio interno e sopra di esse adagiarono voi, come simboli del legame alla sua vita terrena. Poi ci misero all’interno del colombario e tutto diventò buio. Fino a quando queste persone, questi archeologi, ci ritrovarono. Siamo stati fortunati, perché ci hanno sempre trattati bene, seppur diversamente da come eravamo abituati. Ci hanno spiegato, con i loro gesti e le loro attenzioni, che il nostro compito è cambiato: noi siamo testimoni di ciò che è stato. E per questo abbiamo la responsabilità di raccontare a chi viene a osservarci la nostra storia. Dobbiamo insegnare, soprattutto ai più giovani, a guardare al futuro senza dimenticare il passato, comprendendo gli errori commessi da chi li ha preceduti. Dobbiamo cercare di trasmettere loro i valori fondamentali per non ripetere tali errori e per partecipare alla costruzione di una società attenta ai bisogni di ciascun individuo. Perché è solo attraverso il riconoscimento e la comprensione della diversità culturale che tutti potranno godere di un’elevata qualità della vita.”
Eleonora Barboni, Isabella Olivo, Alice Rizzato e Gaia Tuffanelli