Dina Vallino appartiene a quella cerchia di psicoanalisti operanti nell’area milanese, formatisi intorno a Luciana Nissim Momigliano, che molto hanno rinnovato la psicoanalisi italiana, abbeverata, con le parole di Antonino Ferro, a quella francese ma soprattutto inglese, sulla scorta dei contributi di Wilfred Bion e Donald Meltzer, nonché attraverso una rilettura dello stesso Freud. In Dina Vallino in particolare sono presenti anche gli echi di Ferenczi e soprattutto di Esther Bick, da cui la Vallino riprende il concetto di angoscia esistenziale del neonato e del bisogno di sentirsi esistere del bambino per il genitore. Con Franco Borgogno infine Dina Vallino coniò il concetto di spoilt child, del bambino viziato quanto affettivamente deprivato da una forma precoce di abuso infantile, che ben rappresenta una metafora delle dinamiche genitori-figli del nostro tempo odierno.
In questo scritto che veniamo qui a ricordare e a ripercorrere Vallino muove dalla dinamica del dolore psichico precoce. A proposito del lutto precoce per la morte di un genitore ella scrive: «Mi sono resa conto anche del fatto che se il bambino manifesta con sintomi una qualche sofferenza ciò è paradossalmente quasi auspicabile, perché in tal modo richiama subito l’attenzione su di sé e può essere aiutato nel difficile percorso del lutto».
Vi è il pregiudizio, prosegue Vallino, che nel bambino orfano si riscontrino quegli affetti dolorosi di dispiacere, nostalgia, senso della mancanza, fino alla disperazione, che possiamo ricollegare al dolore del lutto. Invece più spesso nel bambino la perdita del genitore non si affaccia all’attenzione come un trauma conclamato, ma come «un evento per lo più omesso, di cui non si vuole parlare, a cui forse non si può neppure pensare e che in genere non sembra provocare alcuna reazione». Tutto questo porta a chiedersi: «Quanto è rappresentabile il lutto nei bambini»?
La perdita del genitore viene negata per garantirsi una possibilità di sopravvivenza psichica. Come scrive ancora Vallino, «Dato che il bisogno di “madre” per i bambini è senza confini, è soverchiante, possiamo chiederci se cercare di non soffrire la perdita è forse per non essere travolti in un abisso pauroso, per non sentire essi stessi di divenire inesistenti, “quasi morti”. Nell’orfano, per Vallino, vi è una difesa grave contro la percezione del dolore, quel sentire il dolore che per dirla con Bion promuove crescita e sviluppo psichico. Il bambino orfano invece sembra così indifferente da essere «pietrificato, assiderato, desertificato». Il risultato di tutto questo è per Vallino «un eclissi di identificazione con il genitore morto» che porta a un vissuto di sentirsi inesistente.
Questa costellazione di vissuti trova un alleato di norma nel silenzio omertoso del genitore che sopravvive alla morte dell’altro, del padre che di fronte alla morte della madre del bambino non è in grado di menzionarla mai, per difendersi da un senso di colpa insopportabile, quello per non fare degnamente un lutto. Si tratta di quel silenzio di omertà che porta a comportarsi come «facendo finta che niente sia accaduto», perché altrimenti ciò rischia di scatenare un ulteriore sconquasso psichico, per il quale si è sostanzialmente inequipaggiati a far fronte. Ancora: «La paura di soffrire comporta che il dolore mentale non deve esistere, perché non ha senso, pertanto è bene non pensarci più affinché sparisca dalla mente. Con tale abolizione del ricordo il soggetto produce mentalmente l’inesistenza del morto, come se non fosse mai stato vivo». Chiariti questi aspetti Vallino passa a descrivere un possibile percorso terapeutico di elaborazione del lutto per la morte del genitore reale nella psicoterapia del bambino e nell’analisi del giovane adulto.
Vallino qui cita Franca Meotti a proposito della memoria del lutto, che è una memoria spietata perché ferocemente fissata sul passato, distruggendo ogni possibilità di affacciarsi sul presente e sul futuro.
Vallino descrive il percorso di elaborazione attraverso la terapia come passaggio nel mondo interno del paziente, gravemente deprivato dalla perdita precoce del genitore, dall’inconsistenza mentale a un nuovo senso di sentirsi esistere. Le prime fasi della terapia possono essere caratterizzate con questi pazienti da un senso di impenetrabilità, da una scarsa fiducia nel terapeuta, da una volontà di non potersi fidare. A poco a poco emergeranno il senso di un rapporto ritrovato, di sentirsi esistere per l’altro, e che l’altro esiste per loro. Ma, come scrive ancora Vallino, «i pazienti orfani per molti versi non desiderano andare da qualcuno; intendono invece affermare con una intenzionale indifferenza che nessuno può sostituire la loro perdita. La loro inconsistenza deve tuttavia essere valutata con serietà e senza moralismi come reazione a una deprivazione grave che mina il significato della vita».
A conclusione, questo breve ma intenso e lucido contributo ci invita ad interrogarci senza retorica sulle radici del lutto infantile e i suoi effetti sull’equilibrio psichico. Una persona che ha subito un lutto infantile, in specie della propria madre, è gravemente deprivata e danneggiata. La possibilità di sopravvivere al lutto è fortemente minata dal rischio di erigere difese psichiche precoci e inabilitanti per proteggersi da quelle che come dice Antonino Ferro sono catastrofi ancor più gravi: fantasmi di morte, paura del crollo (vedi il contributo di Winnicott riletto da A. Nicolò), assideramento e congelamento delle emozioni, in direzione di una morte psichica. Cruciale è la funzione del genitore che sopravvive, del caregiver sostitutivo, e anche del tempo che nel lavoro del lutto fa la sua parte, portando la persona ad anni di distanza a potere pensare ciò che prima non era raggiungibile perché troppo doloroso.
Tommaso Fratini, già docente a contratto di Pedagogia speciale, è ricercatore in Metodi e didattiche delle attività sportive presso l’Università Telematica IUL
Riferimenti bibliografici
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Borgogno F., Vallino D. (2006), “Spoilt children”: un dialogo fra psicoanalisti, in «Quaderni di psicoterapia infantile», 52, pp. 107-148.
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