Angelo attendeva ogni sera con angoscia il ritorno del padre, sapeva che, se qualcosa fosse andato storto, se il gatto avesse rovesciato la ciotola dei croccantini, se l’asciugamano non fosse stato al suo posto, lui si sarebbe molto arrabbiato con la mamma e sarebbero cominciate le urla e gli schiaffi.

Gli orfani di femminicidio, nella quasi totalità dei casi, portano con sé un bagaglio di esperienze traumatiche che hanno preceduto il tragico evento e che si sono protratte anche per lungo tempo.

Violenze alla quali hanno assistito tra le mura domestiche e dalle quali nessuno è stato in grado di proteggerli.

Assistere non significa solamente vedere, ma anche aver sentito o aver visto gli effetti dei maltrattamenti sulla propria mamma e aver percepito e “respirato” il clima di violenza all’interno della propria casa.

Sara non aveva mai visto il papà picchiare la mamma, ma non le erano sfuggiti i lividi, gli sguardi bassi, gli occhi rossi asciugati dalle lacrime perché lei non vedesse.

Alcuni orfani hanno subito loro stessi delle violenze…ci umiliava e ci picchiava e poi pretendeva che ci comportassimo come una famiglia normale e che andassimo tutti a mangiare il gelato, come se nulla fosse successo…; oppure sono stati utilizzati come strumento di ritorsione nei confronti della donna.

“Luigi, a 9 anni ha già le idee molto chiare: da grande vuole fare il poliziotto, «così arresterò tutti quelli che fanno male alle donne». Sa di che parla. Suo papà era così. Faceva male alla mamma. Dopo aver litigato, a volte, lo prendeva con sé senza dire niente e se lo portava via per giorni: per punirla, per gettarla nell’angoscia. Suo papà, una mattina, alla mamma ha sparato” (De Carli, p. 37).

Per un bambino, essere esposto o subire violenza, significa fare continua esperienza di vissuti di paura, terrore, rabbia, impotenza e senso di colpa, e apprendere implicitamente che la violenza è la principale modalità di entrare in relazione con l’altro e di gestire il conflitto (Goffredo et al., 2019).

Marco fino a 6 anni, età in cui è rimasto orfano, ha pensato che la violenza fosse la normalità, che calci e schiaffi fossero un mezzo consentito per risolvere i problemi.

Drammatica è anche la situazione di quei bambini che, per un’erronea interpretazione del diritto alla bi-genitorialità, sono costretti a frequentare il genitore violento, anche contro la loro volontà.

Il papà di Maria aveva minacciato la sua mamma molte volte, i suoi genitori erano separati, ma lei doveva comunque vederlo tutte le settimane, il martedì e il venerdì, e ogni volta le veniva mal di pancia, già dalla sera prima. Il martedì sarebbe dovuto andare a prenderla a scuola, ma si dimenticava sempre e, se avesse chiamato la mamma, poi si sarebbe arrabbiato con lei.

Purtroppo, i bambini vittime di violenza si trovano di fronte ad un paradosso perché, se da un lato sono naturalmente portati a richiedere la vicinanza dell’adulto per ricevere cura e protezione, dall’altro sono costretti a prenderne le distanze, in quanto rappresenta per loro una minaccia e un pericolo (Pellegrini et al., 2017).

La casa, la famiglia non sono più ambienti sicuri e accoglienti, ma luoghi imprevedibili, in cui stare sempre in stato di allerta, in cui guardarsi le spalle ed è necessario stare attenti a tutto ciò che viene detto o fatto, dove non si può sapere se un sorriso sarà il preludio di una carezza o di un pugno.

Il femminicidio non capita, non arriva inaspettato, non è frutto di un raptus, se non in rari casi, ma è prevedibile e soprattutto prevenibile, se sappiamo cogliere i segnali della violenza che lo precedono.

Gli orfani di femminicidio sono, dunque, bambini che hanno vissuto molti traumi, che portano dentro di loro pregresse storie di violenza che non sono state viste e che, purtroppo, si sono concluse con un tragico epilogo, che potrebbe e dovrebbe essere evitato.

Manuela Stucchi, pedagogista

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