A nonna Iris piaceva molto andare a teatro. Era uno dei pochi svaghi che si era concessa nella vita. Raccontava che suo padre, il mio bisnonno Luigi, era stato un grande appassionato di opera lirica, trasmettendole l’amore per la musica e per lo spettacolo teatrale. Alla nonna, a dire la verità, piaceva molto di più l’operetta, in cui al canto si alternava la recitazione; le piaceva la comicità che accompagnava alcune sceneggiature, il gioco degli equivoci e, anche se alcune operette le conosceva ormai a memoria, riusciva sempre a ridere di alcune battute come se non le avesse mai sentite prima. Le volte in cui era stata al cinema si contavano sulle dita di una mano, non aveva mai viaggiato, eppure, ogni anno, aspettava che mia madre portasse a casa l’opuscolo con la stagione dell’operetta per sbirciare se mettessero in scena le sue preferite. L’abbonamento al teatro della mia città era molto costoso e, poiché a tutti in famiglia, me compresa, anche se ero poco più che una bambina, quelle arie così allegre piacevano molto, mia madre aveva giudiziosamente deciso che gli abbonamenti acquistabili non potessero essere più di tre. Questo voleva dire che, a turno, uno di noi si doveva sacrificare. Non toccava mai a me. Il mio posto era sempre garantito. E così, negli anni, sono riuscita ad ammirare più volte quello che, per me, era un vero capolavoro di musica, recitazione, costume, scenografia. In età adulta ho amato molto anche l’opera, ma il ricordo di quelle serate in cui ci si vestiva a festa e si poteva rimanere alzati fino a tardi, canticchiando in macchina quelle arie così familiari, conserva nel mio cuore un posto speciale. L’esperienza teatrale, a prescindere dai gusti personali, trattiene in sé qualcosa di magico, una bellezza intrinseca rispetto alla quale non si riesce a rimanere indifferenti. Se questa esperienza viene goduta fin da bambini, è capace di entrare profondamente nell’anima e renderci non più uguali a quelli di prima. In tempo di pandemia sono molte, troppe, le opportunità che sono state tolte ai bambini. In modo particolare, oltre alle occasioni di socializzazione e di prossimità fisica, sono state praticamente annullate anche le possibilità di fruire di momenti di bellezza, di nutrimento dei sensi, del cuore e dell’anima. Costretti a casa nei momenti non dedicati alla frequenza scolastica, la quale sappiamo deve avvenire secondo precisi protocolli, il rischio per i bambini non è solo quello di vedere sfilacciarsi le relazioni, le competenze emotive e sociali, ma anche quello di non riuscire più a coltivare la cultura, la bellezza, incrementando passioni, orientando la propria vita verso qualcosa di autenticamente gratificante. Leggo di alcuni progetti in campo sociale per tentare di recuperare, in parte, spazi in cui promuovere la cultura e la sua condivisione. Il progetto di welfare culturale “Sciroppo di Teatro” lanciato da Ater Fondazione, è stato ideato, in Emilia Romagna, per riavvicinare i bambini e i loro genitori all’offerta culturale. In questa splendida iniziativa sono coinvolti anche pediatri e farmacie, chiamati a prescrivere, letteralmente, la somministrazione di alcuni spettacoli teatrali che bambini e famiglie potranno scegliere tra una rosa di proposte. Il progetto è ammirevole e la modalità è senz’altro curiosa. Il fatto di considerare il teatro come una medicina, intendo. Non ci avevo mai pensato. Quando mi mettevo le scarpe di vernice, la gonna scozzese, per la gioia di mia madre, quando guardavo mia nonna tirare fuori dall’armadio per l’occasione il cappotto più bello, non avevo mai pensato che lo facessimo per qualcosa che, oltre a renderci felici, potesse avere una valenza terapeutica. Ma, se ci rifletto meglio, in effetti era proprio così. Quei pochi spettacoli, che gustavamo avvolti nei nostri abiti più belli tra dicembre e febbraio di ogni anno, ci riempivano il cuore e ci davano la forza per affrontare un anno di fatiche, di lavoro e di preoccupazioni, grandi o piccole che fossero. Ci restituivano un senso della famiglia diverso, che si rinsaldava di fronte a qualcosa che tutti percepivamo come etereo e impalpabile ma che, al contempo, ci attraversava profondamente, al punto da renderci riconoscibili, a noi stessi e agli altri: la famiglia che amava la musica. Di questa medicina, se così vogliamo considerarla, i bambini di oggi ne hanno davvero tanto bisogno. Hanno bisogno di riappropriarsi di qualcosa che sappia essere spirito e materia al tempo stesso, che sappia avvolgerli, affascinarli, confortarli e rassicurarli. Non tutto è perduto. La bellezza ha già salvato il mondo molte volte. Lo farà ancora.
Monica Betti, insegnante di Scuola dell’Infanzia, docente del Master Tutela, diritti e protezione dei minori