Vi proponiamo un’interessante riflessione del filosofo Aldo Capitini a proposito della vita e della morte in questo tempo di emergenza. La morte viene oggi ad assumere contorni ancora più sfumati rispetto al passato: oggi le persone che amiamo escono dalle nostre case per non farvi più ritorno. Non ci è consentito assisterli durante la degenza in ospedale, non possiamo tenere loro la mano durante il trapasso, non possiamo vegliare le loro salme, non possiamo seppellire il loro corpo. Di tutto questo processo che per noi, in epoca di normalità, costituiva una precisa significazione della morte, ivi compresa la sua socializzazione, oggi ci resta solo un’urna contenente le ceneri dei nostri cari. Cosa significa questo in termini di ricordo della persona cara? Cosa significa in termini di rielaborazione del lutto, della capacità di tenere dentro di noi ed alimentare la presenza di chi non c’è più? Il rischio in questo tempo è quello di far assumere alla morte un’identità generica, senza riuscire a connotare il processo della morte con la vera identità di chi ci lascia. Dobbiamo fare un enorme sforzo per restituire alla morte la persona, senza che essa sfugga nella nebulosa creata dal vuoto spazio temporale tra l’ultimo saluto in vita e le ceneri che ci vengono riconsegnate. Come colmare questo vuoto? Come restituire dignità ad un processo, quello dell’elaborazione del lutto, essenziale? Proviamo a meditare su questa profonda riflessione. La morte può essere la fine di tutto: di noi, di coloro che amiamo, del virus, di questo tempo. Oppure può essere rinascita: rinascita interiore, segno di un tempo che può essere colto come l’occasione, invece di lasciare andare tutto, di tenere tutto. Ma tenerlo dentro di sé: profumi, parole, gesti, sguardi, ricordi. Perché tutto arricchisca la nostra interiorità e restituisca a questa morte, oggi ritenuta ancora più maledetta e ingiusta, una nuova possibilità. Quella di far rinascere dentro di noi tutti coloro che abbiamo amato.
Monica Betti